Jimi Hendrix e la sua influenza sulla musica in Italia e nella cultura popolare

Jimi Hendrix è l’idolo di ogni chitarrista. Musicista, sì, ma prima di tutto innovatore, creativo e un artista a tutto tondo, non esiste chitarrista che non abbia almeno una volta voluto avere le sue capacità, che non abbia ascoltato le sue canzoni o sentito osannare il suo nome. Ma chi era Jimi Hendrix? Scopriamolo insieme.

Johnny Allen Hendrix

Nato nel 1942, Jimi viene inizialmente battezzato Johnny Allen Hendrix, nome che poi il padre cambierà in James Marshall Hendrix, Jimi si dimostra fin da molto giovane interessato alla musica. Infatti, si dice che il primo strumento di Jimi sia stato qualcosa che lui stesso si è costruito con una scatola di sigari sopra alla quale tese un elastico. Difficile chiamare questo strumento una chitarra. La sua prima vera e propria chitarra gli viene regalata nel 1958 dal padre, successivamente alla morte della madre.

Tutti sanno che Jimi era mancino, ma non tutti sanno che esistono chitarre diverse per destrimani e mancini. La chitarra che il padre regala a Jimi era per destrimani, ma questo non ferma il giovane James che la rovescia, imparandola a suonare “al contrario”, definendo così un modo di suonare che Jimi porterà con sé per tutta la sua carriera.

Fort Campbell: l’inizio della carriera musicale

Nel 1961 Jimi Hendrix viene arrestato. La polizia lo trova alla guida di un’auto rubato e gli vengono date due opzioni su come scontare la pena: il carcere o l’arruolamento. Jimi sceglie di arruolarsi ed è così che arriva a Fort Campbell, dove incontra Billy Cox, bassista con il quale formerà i King Kasuals, gruppo che nel 1962 viene scritturato da Acklen a Nashville. Ecco, quindi, che i King Kasuals cominciano a esibirsi nella zona intorno a Jefferson Street di Nashville, centro pulsante della comunità afroamericana dove stava lentamente emergendo un nuovo genere musicale: il rhytm and blues che poi influenzerà la sua musica.

Il Successo

La vera ascesa verso il successo comincia nel 1964. Qualche mese dopo essersi trasferito a New York, Jimi viene reclutato nella Isley Brothers Band. Fare il chitarrista per un solo gruppo, però, non è nel suo DNA e Hendrix continua a saltare da una band alla prossima, facendo da supporto a strumentisti del calibro di King Curtis, ma non trovando mai veramente qualche posto dove rimanere. Nel 1966 Hendrix fonda Jimmy James and the Blue Flames – un gruppo dalla vita breve; in quello stesso anno Jimi incontra Linda Keith che lo presenta a una serie di VIP del mondo della musica che non vedono niente in lui. Lei non demorde, e invita il bassista degli Animals – Chas Chandler – a un concerto di Hendrix. Dopo aver assistito alla cover di Hey Joe di Billy Roberts di Hendrix, Chandler lo convince a trasferirsi a Londra dove fonderà la Jimi Hendrix Experience. Un gruppo dalle sonorità acide e graffianti che cambiò il rock come lo si conosceva fino ad allora.

Jimi Hendrix e l’influenza sulla cultura popolare

Sottolineare chi fosse Jimi Hendrix fosse prima di diventare Jimi Hendrix è indispensabile per capire le influenze e sfumature blues e rock della sua musica.

Ma quale è il suo lascito? Jimi Hendrix è sempre stato un’individualista. Questo, combinato alla sua voglia di sperimentare e al fatto che non sapesse leggere la musica, gli permetteva di non essere ingabbiato dalle regole musicali del tempo. Per Hendrix, la chitarra era uno strumento per comunicare emozioni. Al fine di fare questo, Hendrix prende elementi come la distorsione e il feedback dal vivo e li usa in maniera diversa da come furono usati fino ad allora, alle volte persino in una maniera ossessiva e ripetitiva. Queste tecniche diventarono poi i caposaldi di generi come Rock e Metal, ma sono riflesse soprattutto nella musica Grunge.

screen della slot dedicata a Jimi Hendrix

Ad oggi, Hendrix è considerato il più grande chitarrista di tutti i tempi e la sua influenza arriva fino alle slot machine, dato che ve ne sono anche alcune a lui dedicate tipo quella dell’immagina qui a fianco.

Jimi Hendrix in Italia

Nel Maggio 1968, Hendrix si esibì a Milano, Roma e Bologna. Tutti i concerti furono sold out, ma se la sua presenza fisica in Italia fu limitata, la sua influenza musicale continua tutt’ora. Nessuno ha influenzato il rock psichedelico tanto quanto Hendrix. Tutti i chitarristi del tempo – e anche odierni – si rifanno a lui come a un’ispirazione, un maestro. Il più vocale nel proclamare di essersi ispirato a Jimi Hendrix è Eugenio Finardi. Anche Omar Pedrini ha dichiarato ispirato fin da subito dalla musica di Jimi, ma colui che ha avuto il piacere di suonare con Hendrix è qualcun altro.

Un mito italiano, qualcuno che ha fatto a sua volta la storia della musica, questa volta italiana: Lucio Dalla. Quando nel 1968 Hendrix si esibì al Piper di Milano, Dalla ebbe l’onore di suonare sul palco con lui. E seppure la musica di Dalla è anni luce diversa da quella di Hendrix, lui stesso se ne dichiarò fan.

La vita di Hendrix finì al Samarkand Hotel il 18 Settembre 1970. Tristemente, Hendrix è un membro del Club 27 – quella serie di artisti che si sono spenti alla giovane età di 27 anni.

Anni zero, il periodo d’oro dell’underground italico con i Fuzz Orchestra

microphone

Anno Domini 2006, nasce a Milano uno tra i gruppi più importanti per la musica sperimentale in Italia, la Fuzz Orchestra. Non lasciatevi ingannare dal nome, niente fiati, archi e ottoni, ma un’orchestra essenziale formata da un trio imbattibile composto da Fabio Ferrari (alias Fiè), Luca Ciffo e Paolo Mongardi.

L’esordio della band è effettivamente il 2007 quando pubblica il suo primo vero album omonimo, che se insieme al secondo, Comunicato n.2 del 2009, era ancora improntato su una matrice rock anni ’70 non priva, però, di un avant-noise corposo e convinto. È con il capolavoro Morire per la patria (2012), che il gruppo abbraccia un sound più moderno e meno nostalgico, decisamente meno passatista, che si riflette in composizioni dal piglio aggressivo e fuori dal comune. Insomma, una vera bomba. Non a caso, Mirko Spino, fondatore della Wallace Records, un’istituzione nel campo della musica underground in Italia, colui che ha scoperto tanti adepti irregolari, ma preziosissimi per il rock alternativo e per il rumorismo più sperimentale, lo annovera tra i suoi dischi preferiti, e non solo in veste di produttore, ma in primis come ascoltatore.

In un’epoca in cui la trasgressione viene canalizzata nei gruppi mainstream e asseconda comportamenti di massa, certo è difficile che gruppi come questo siano tra i primi ad essere googolati. La colpa è dei media? Non del tutto. Una buona dose di mancanza di curiosità dei post-millennials, che vada oltre ciò che viene proposto dai grandi canali di comunicazione – ossia i cantanti pop rock delle major – fa la sua parte.

Oggi, a farla da padrone nel panorama italiano, e in generale occidentale, sono i cantautori con ambizioni spicciole che, attingendo a temi convenzionali e che vanno bene al grande pubblico (se non peggio, autoreferenziali), guadagnano sempre più visibilità a spese di un rock che è ormai lontano dall’essere sinonimo di antagonismo politico e culturale.

Quella dei Fuzz Orchestra, invece, è una musica di nicchia adatta a una cerchia di ascoltatori alla ricerca di band non omologate, che vogliono sentirsi sputata in faccia la realtà e sempre alla ricerca della chiave giusta per interpretare il mondo globalizzato attraverso parole che inducono alla riflessione e all’azione.

I Fuzz sembrano essere slegati da logiche di profitto, e lo dimostra il fatto che suonino con la stessa energia e trasporto sia nelle date dei live più importanti sia in quelle più mediocri. Il loro intento, poi, non è certo quello di rimanere sempre ben in vista mettendo in circolazione brani a intervalli regolari, e quindi pubblicare un pezzo al mese e poi un album ogni anno. Loro su un pezzo ci tornano e ritornano più volte, lo correggono, lo arricchiscono, fino a quando non sono veramente contenti di ciò che andranno a far ascoltare ai propri fan, lontano dalle pretese stressanti a cui invece si sottopongono gli artisti impegnati con le label più famose. La cura nella produzione dei pezzi è davvero maniacale per questa band, e questo perché punta a un concept di spessore tra contenuto impegnato, scrittura curata e strumentalismo esaltante.

Il documentario e i quattro album

In un documentario del 2014 dal titolo Semitoni, diretto da Michele Ricchetti e Shapoor Ebrahimi e di cui il trio è protagonista, si spiega proprio la difficoltà di fare musica nell’ambiente underground, in cui si opera in un sistema di autogestione e autoproduzione. Si tratta di una strada in salita, ma ricca di soddisfazioni e da affrontare con enorme passione e convinzione come si evince, anche se in pochissimi minuti, già dal trailer del cortometraggio:

La formula Fuzz tra canzoni popolari, riff di chitarra e spunti rubati al cinema

Attualmente rimangono quattro gli album all’attivo della Fuzz Orchestra, tutti pubblicati e distribuiti da etichette diverse (da Wallace Records alla defunta Bar La Muerte, a Boring Machines e tante altre):

  • Fuzz Orchestra (2007);
  • Comunicato n.2 (2009);
  • Morire per la patria (2012);
  • Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi (2016)

Affezionati all’idea della coproduzione (ricordiamo che Morire per la patria ha visto coinvolte ben 16 label), che ha permesso al trio milanese di moltiplicare i nodi di quella rete di rapporti che si vengono a creare tra musicisti, etichette e promoter. I nostri incredibili artisti, tra scambi e collaborazioni, si sono fatti conoscere in tutta Italia con più di duecento date all’anno, e non solo! Dopo i tour in Europa, a partire dal 2010 sono sbarcati anche negli Stati Uniti.

Ma ora riavvolgiamo il nastro e ripercorriamo insieme le emozioni che ci hanno regalato.

Esordi e storia della Band

Partiamo dagli esordi. Già con il primo disco omonimo, i Fuzz arrivano con i loro pezzi come un pugno nello stomaco e ci scuotono con citazioni sociali che ripercorrono pagine bieche della storia italiana. Otto tracce e trenta minuti in cui oscilliamo tra pezzi strumentali come Omissis, Noscosmic e Lili Marlene che sono schegge compositive, un mix di rumorismo, musica elettronica e psichedelica in cui la band mostra di conoscere profondamente la musica e di fare della sperimentazione il proprio pane quotidiano; e brani che si dilatano nel tempo e in cui la base musicale passa in secondo piano, lasciando spazio a nastri con interviste e dialoghi di personaggi storici.

Musica e politica si incontrano e il risultato è straordinario. L’invettiva contro il potere arriva proprio con il brano che apre l’album, guarda caso intitolato Il potere, che in una ritmica ripetitiva vede batteria e chitarra inchinarsi a testimonianze antifasciste del periodo della Resistenza, per poi chiudersi con la voce del duce che non lascia spazio alla libertà di espressione e in cui, quindi, tutti gli strumenti cessano di suonare.

Lo sdegno cresce nei successivi sei minuti in cui, con Agosto 80, la memoria è riportata “all’impresa più criminale che sia avvenuta in Italia” quando ventitré chilogrammi di esplosivo mandarono all’aria l’ala Ovest della stazione di Bologna, causando 85 morti e 200 feriti. Dallo stragismo neofascista dell’Italia contemporanea la condanna passa poi al capitalismo e alle pessime condizioni del lavoro di fabbrica in La bestia, un brano che omaggia il grande Ennio Morricone, musicista di spiccata sensibilità sociale. Un pezzo che, da fan, metterei in coda alle tracce da ascoltare leggendo le parole taglienti che la Ferrante nella quadrilogia dell’Amica Geniale riserva alla vita operaia degli anni Sessanta, quando la sua protagonista iconica, Lila, magra e con le mani gonfie è inghiottita dalla dura vita di fabbrica dell’azienda Soccavo. Un connubio di immagini e parole che farebbe da monito in un presente che a tratti rischia di valicare di nuovo quelle soglie di un passato intollerabile con tanti doveri e pochi diritti per i lavoratori. E sì, è proprio il caso di dirlo, appena si ascoltano, i Fuzz Orchestra vanno dritti al cuore e il confine tra suono e stati d’animo sfuma nel pubblico appassionato.

Il secondo album – Comunicato n.2

Ora, sentimentalismi a parte, ritorniamo alla discografia di questa band atipica e lanciamoci nel muro di rock violento del loro secondo album: Comunicato n.2. Qui, infatti, le tracce più che un pugno nello stomaco, sono proiettili in testa nel mezzo di una rivoluzione interiore in cui sopravvivenza è la parola chiave. Le sirene antiaeree del primo brano Il terrorista fanno da preludio a un assalto alla coscienza che seguirà nell’ascolto delle altre sette tracce. I brani sono violenti, caratterizzati da una carrellata di rimandi storici e un’atmosfera cupa creata grazie a un sound sui generis: rumorismo fuori dagli standard, techno punk, kraut rock, doom metal fino a stralci di free jazz (in Marmo rosso sangue) sono solo alcuni dei generi che si mescolano musicalmente in questo progetto. La narrazione scorre tra citazioni politiche prese da vecchie registrazioni o da film e, nel mirino della band, c’è ancora il potere impersonato da facce sempre nuove che però “continuano a succhiare il sangue della gente” come si possiamo ascoltare in Hanno cambiato faccia. Insomma, un messaggio al passo coi tempi visto il dramma politico e sociale che scuote lo stivale da anni!

Il terzo album – Morire per la patria

Risorse sui film di culto

Ma passiamo al terzo capitolo della carriera della band indipendente che, con il terzo disco Morire per la patria, fa un grande salto di qualità rispetto ai già validissimi primi due lavori. La terza fatica in studio dei Fuzz Orchestra è un ulteriore discesa nei meandri della storia sinistra della nostra patria. Anche questo disco strumentale non è cantautorale e per i suoi brani preleva i campioni audio da vecchi film-culto. Nel caso di Sangue che fa da opener, la voce è quella del celebre Gian Maria Volontè in Giordano Bruno di Giuliano Montaldo, vittima del potere e condannato a morte dalla chiesa per le sue idee, forse davvero cristiane. La manipolazione delle citazioni cinefile continua in La proprietà, in cui a prestare la voce questa volta è Flavio Bucci, Total in La proprietà non è più un furto di Elio Petri, un marxista-mandrakista impegnato nella lotta al ladrocinio capitalista e stanco dell’egoismo caratterizzante della società per cui, conta di più chi ha di più, e quindi, chi gioca a rubare meglio. Ne Il paese incantato il campionamento selezionato proviene, invece, dalla pellicola del ’68 del regista cileno Jodorowsky, Fando y Lis, una forte critica alla società moderna attraverso la storia fantastica creata attorno al rapporto malato dei due protagonisti che si trovano a vivere scenari assurdi. Il lavorio di Ferrario continua con l’omaggio al Pasolini nel pezzo dissacrante già dal titolo, In verità vi dico, che riproduce battute del film de Il Vangelo secondo Matteo del capolavoro pasoliniano. Per la traccia di chiusura, che riprende il titolo dell’album, la voce tagliata e di cui si serve il trio è, ancora, quella di Gian Maria Volontè in Uomini contro di Francesco Rosi, per una denuncia contro la guerra, che fa riflettere sulla follia e l’inumanità dei conflitti.

Questo manifestato scontro contro il potere costituito che serpeggia per tutto l’album è anche, dobbiamo dire, decisamente ben suonato e tra un omaggio e l’altro, la voglia di headbanging prende il sopravvento già dai primi minuti dove a prevalere è un heavy metal corposo, di ispirazione sabbathiana. Le incursioni dal cinema sono sempre inserite in un flusso sonoro che anticipa e facilita la comprensione della narrazione, per cui a ogni stato d’animo e riferimento testuale viene fatta corrispondere una commistione di strumenti e generi diversi che, per questo disco, ha anche reso necessarie collaborazioni esterne. Per cui, tra ritmi tribali e scuotimenti metal, oltre a chitarra e batteria, hanno fatto la loro incursione violino, sax, flauto traverso e clarinetto, rispettivamente con Dario Ciffo, Enrico Gabrielli ed Edoardo Ricci, creando atmosfere più soffici e jazzate in contrasto con le chitarre stridenti avant-noise, affinché ogni dettaglio fosse funzionale all’effetto da produrre con l’ascolto.

Quarto e ultimo album – Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi

Così, tra un esperimento e l’altro, nel percorso originale e unico dei nostri idoli, arriviamo al 2016 con il nuovo nato di casa Fuzz dal titolo Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi. Un titolo che colpisce come una condanna a morte e che introduce il concetto principe dell’album che è l’Apocalisse, in cui l’immaginario evocato è una critica verso l’esistente con l’auspicio di un cambiamento che porti ad un’umanità ritrovata. Anche in questo nuovo lavoro, per un’analisi critica della contemporaneità, la band ripiega sul passato, ma questa volta lo fa da un punto di vista diverso, meno sociale e politico e più metafisico. Il titolo richiama un fatto storico, la crociata contro gli albigesi, bandita dalla Chiesa per estirpare i catari, un episodio definito come “uno dei più palesi casi di genocidio nella storia”. Pare che, infatti, questa frase sia stata attribuita all’abate Citeaux Arnaud Amaury che la pronunciò prima che si desse via al massacro, uno dei tanti compiuti in nome di un Dio per scopi principalmente di potere, più che religiosi.

Coerente con la tematica centrale del disco che è l’Apocalisse, la campionatura vocale del disco, attinge ad un genere cinematografico in più, oltre a quello socio-politico degli anni ’60 e ’70: la fantascienza. Apprezzatissima, infatti, è la citazione del film Dune di Lynch dalla saga di Frank Herbert, un mondo che ha ispirato anche l’universo di Stars Wars e che, di recente, è tornato a bussare alle porte del cinema grazie a Denis Villeneuve che l’ha presentato in anteprima mondiale alla Mostra del cinema di Venezia 2021 con un giovanissimo Timothée Chalamet nei panni del protagonista Atreides. Una dimostrazione ulteriore questa, che i campioni scelti dal nostro Fié sono validi e sempre attuali. In ogni caso, nella title track Todo Modo, non manca l’omaggio all’età dell’oro del cinema italiano con Elio Petri e la sua pellicola omonima.

Tra le citazioni audio della tracklist però, due in particolare, la n.3 Born into This e la n.4 L’uomo nuovo, invitano a riflettere su quanto sia sciocca l’umanità che, assetata di potere, distrugge sé stessa. La prima è una citazione letteraria del poeta Charles Bukowski, Dinosauria, We, un testo profetico che con i tempi che corrono non può non riportarci alla situazione odierna, sputando verità su cosa stia diventando il mondo in cui viviamo: un brutto posto in cui “la signora morte se la ride, mentre i pesci sporchi di petrolio sputano la loro preda oleosa, gli ospedali sono così costosi che conviene lasciarsi morire, gli avvocati talmente cari che è meglio dichiararsi colpevoli, dove le galere sono piene e i manicomi chiusi,”, un posto in cui “la terra sarà inutile, il cibo diventerà un rendimento decrescente, l’energia nucleare finirà in mano alle masse e il pianeta sarà scosso da un’esplosione dopo l’altra”. Uno scritto da pelle d’oca che, in Born Into This, si ascolta recitato proprio dallo stesso Bukowski in persona e che quindi vale la pena di ascoltare.

La seconda citazione che tocca le corde dell’anima, invece, è nuovamente cinematografica, tagliata da Pasqualino Settebellezze, un film di Lina Wertmüller del ’75, in cui viene descritta con realisticità disarmante la perdita di valori dell’uomo moderno asservito all’attuale sistema economico, causa di uno smisurato sfruttamento delle risorse.

Come era stato per il precedente album, intanto, anche in quest’ultima meraviglia la Fuzz Orchestra ha strizzato l’occhio alla canzone popolare inserendo stralci di pezzi dei cantautori più amati di sempre: se a chiudere il brano Il potere nel disco esordiente, c’è infatti la voce di Roberto Murolo con la sua Anema e core e per il brano Viene il Vento di Morire per la patria, quella del grande Domenico Modugno nella sua Sole, sole, sole; in quest’ultimo disco, i tre osano ancora di più e ci fanno piombare nel mezzo di una cerimonia funebre. Il Lamento Di Una Vedova, infatti, altri non è che la rielaborazione in chiave moderna di un canto funebre – Mare Maje (Amare me) –della tradizione abruzzese e la cui origine si perderebbe nella notte dei tempi.

Conosciamo meglio il nostro super trio

Dopo quanto abbiamo detto finora etichettarli in un genere musicale predefinito sarebbe riduttivo. Gruppo heavy/rock noise sperimentale potrebbe essere un inizio sì, ma non sarebbe esplicativo perché la lista di aggettivi per descrivere la loro musica sarebbe ancora molto lunga. Ogni loro pezzo è un esperimento che può essere riproposto a distanza di anni, come se il tempo non fosse mai passato. Quindi, se non avete mai ascoltato i Fuzz Orchestra, questo è sicuramente il tempo di iniziare, perché il loro, è davvero un talento sopra la media. E durante i loro live poi sono assolutamente incredibili, una scossa adrenalinica che lascia il segno!

Appena nato nel 2005, il gruppo aveva una composizione diversa da quella attuale ed era formato per i ¾ dai componenti dei Bron Y Aur con Luca Ciffo (chitarra), Fabio Ferrario (manipolazioni analogiche) e Marco Mazzoldi (batteria), quest’ultimo sostituito da Paolo Mongardi dopo il secondo album.

Inizialmente per i Bron Y Aur, rappresentanti del noise psichedelico del panorama underground italiano anni ‘90, quello del Fuzz Orchestra doveva essere un progetto parallelo. Dell’esperienza passata, nella nuova formazione, i tre musicisti si portano sicuramente con sé le influenze delle band rock inglesi di fine anni ’60 (Bron Y Aur non a caso è proprio il titolo di una canzone dei Led Zeppelin) e di tutta quella musica di inizi anni ’70 che ha visto esplodere insieme hard rock, psichedelia e progressive. Oltre a questi influssi stilistici, ci sono però anche altri elementi (alcuni dei quali molto distanti dal mondo del rock) che si affacciano nell’universo musicale del nuovo gruppo. Incursioni di kraut e jazz che abbiamo ascoltato in qualche pezzo erano, infatti, già state sperimentate nel loro linguaggio musicale precedente, arrivando a sperimentare persino note di blues (la cover di Bring it on Home to me di Sam Cooke del 1962 contenuta nell’album Vol.4 della ex band ne è un esempio).

Già fan accaniti dei Black Sabbath, però, è solo da quando Paolo Mongardi si unisce al gruppo che il metal fa la sua comparsa concreta nella loro musica. Tra i batteristi più interessanti in circolazione, quando entra a far parte della band, Paolo lavora anche con gli Zeus! e i FULkANELLI, e aveva alle spalle tante esperienze di collaborazioni importanti, tra cui quella nei Ronin, la più memorabile. Una personalità poliedrica, dunque, aperta a tanti influssi e che insieme alle distorsioni della chitarra di Ciffo e l’apporto di Fié, miscelatore della band con i suoi effetti analogici, ci dà la conferma di trovarci davanti a un gruppo davvero importante, che esorcizzando fantasmi del passato, mantiene fresca una certa memoria storica e semina chicchi di rivoluzione. Sta a noi decidere se lasciarli germogliare o meno!